"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

20 ottobre 2014

Iraq, futuro solo nel dialogo

Elisa Storace

«La situazione sta peggiorando perché fra poco arriverà l’inverno, che nella zona di Erbil è molto duro, e in Iraq abbiamo migliaia di profughi fuori dalle loro case, alloggiati in sistemazioni di emergenza, migliaia di famiglie per le quali noi come Chiesa stiamo provvedendo come possiamo, ma alle quali oggi non siamo assolutamente in grado di dire quando o se potranno riavere la loro vita di prima: una situazione veramente drammatica».
A parlare così è Louis Raphaël I Sako, patriarca cattolico iracheno di Babilonia dei Caldei, a Roma per il Sinodo e a cui Roma Sette ha chiesto un commento sulla situazione dei cristiani in Iraq. «La presenza dei cristiani nei Paesi arabi – spiega ancora -, la loro stessa esistenza, oggi è minacciata: l’altro ieri ho celebrato una Messa ad Amman, capitale della Giordania, e mi hanno riferito che solo nell’ultima settimana cinquemila persone sono arrivate dall’Iraq, un esodo di gente spaventata che va avanti da mesi e che vede ogni giorno nuovi arrivi».
«Sinceramente – aggiunge con preoccupazione – noi non capiamo dove va l’islam perché quello che vediamo oggi è un islam violento che cancella l’altro, che vuole convertire la gente con la forza, ma che, così facendo, rischia davvero di autodistruggersi: la “jihad,” la guerra nel nome di Dio, è un pericolo che rischia di sconvolgere irreparabilmente la società araba».
Su quali siano le possibili soluzioni il patiarca esprime con chiarezza una posizione molto ferma, che coinvolge sia il fronte interno che le responsabilità dei Paesi occidentali: «Ieri – dice – ho incontrato il re di Giordania, Abd Allah II, il quale, come tutti gli altri capi di Stato arabi, è cosciente che questo islam estremista non rappresenta tutti i musulmani, ma sa anche che il suo regno, come gli altri della regione, ha enormi problemi di sicurezza e soffre della tensione fra sunniti e sciiti, perciò teme di prendere una posizione che possa accendere reazioni violente».
Sul fronte interno, osserva il patriarca, «toccherebbe ai capi religiosi islamici la responsabilità di dire che questi attacchi contro degli innocenti non sono accettabili, condannando ufficialmente le violenze con una “fatwa”, ma sul piano politico, accanto a un lavoro comune di tutti i Paesi arabi a partire dalla presa di coscienza che l’estremismo è un pericolo anche per gli stessi musulmani, è assolutamente necessario un intervento internazionale».
Ricordando la grande fuga dei cristiani da Mosul di quest’estate – «in una sola notte 120mila persone hanno lasciato le loro case senza niente, senza soldi, camminando per ore prima di trovare rifugio, dopo aver visto le proprie case saccheggiate» – e paventando che le violenze possano arrivare fino a Baghdad, Sua Beatitudine insiste sull’urgenza di un’azione delle potenze occidentali, le quali non sono scevre di responsabilità riguardo questa situazione.
«Se si guarda al Libano – fa notare il Patriarca -, un Paese dove da molti anni convivono pacificamente cristiani, ebrei e musulmani, è facile rendersi conto che la differenza maggiore con gli altri Paesi arabi è l’assenza di risorse naturali che possano indurre qualcuno da fuori ad alimentare le divisioni interne per meglio sfruttarle». Il conflitto che oggi in Iraq vede vittime i cristiani e le altre minoranze, prosegue, «fa parte di questa strategia economica di controllo come tutti quelli che da anni affliggono le nostre regioni, e io penso che anche Isis ne faccia parte come qualcosa che è sfuggito di mano. Ora fermarli dovrebbe essere responsabilità sentita soprattutto da chi l’ha armato».
Interesse di tutti è, secondo il patriarca iracheno, che i cristiani «costruttori di ponti, portatori di pace» rimangano nelle terre dove abitano da sempre, partecipando al progresso della società araba: «Se noi possiamo avere un futuro, questo è possibile solo dialogando con tutti e chiedendo con coraggio i nostri diritti come cittadini, sollecitando la separazione della religione dallo Stato, nella convivenza, finalmente pacifica, di tutte le fedi».